La raccolta differenziata è ormai diventata una delle nostre più meccaniche consuetudini giornaliere, ma ben pochi sanno cosa si cela oltre il braccio automatico dei camion per la raccolta, che nottetempo si aggirano per le vie a svuotare cassonetti. Ebbene una delle tante modalità di recupero per gli RSU (meglio conosciuti come Rifiuti Solidi Urbani) ha proprio come finalità quella della produzione energetica; si parla di vere e proprie centrali elettriche che nulla hanno da invidiare alle più famose centrali  a gas o carbone.

Il principio di recupero è un concetto di facile intuizione: è sufficiente raggiungere la temperatura di infiammabilità di un materiale perché questo prosegua spontaneamente nella sua combustione, somministrando energia sotto forma di calore – in larga parte contenuto nei fumi generati dalla propria combustione. Tale calore è inserito in vari circuiti di scambio termico che portano alla generazione di vapore surriscaldato – secondo lo stesso principio di funzionamento degli impianti di produzione energetica a combustione di gas – il quale viene fatto espandere in una turbina. Quando la turbina raggiunge la velocità di rotazione di 3000 giri al minuto, il gioco è fatto ed è possibile trasformare questa energia meccanica, attraverso un accoppiamento diretto ad un alternatore, nella comune corrente elettrica che alimenta le nostre case.

Trascurando, per il momento, gli aspetti tecnici, risulta particolarmente interessante individuare il potenziale energetico di quegli oggetti che quotidianamente conferiamo fra i rifiuti: misurando il potere calorifico del polietilene (materiale del quale sono composti gran parte dei rifiuti plastici urbani, quali ad esempio le bottigliette di plastica) scopriremo, infatti, un valore di circa 11.000 Kcal/kg, di gran lunga superiore alle circa 6000 Kcal che può fornire un kg di alcool etilico. Un risultato del genere, che porta le nostre bottigliette d’acqua ad avere un potenziale energetico ben più alto di molti dei più conosciuti combustibili fra cui carta, torba, carbone e benzene, non deve stupirci se ricordiamo che i polimeri sono proprio derivati del petrolio!

Giunti a questo punto risulta naturale chiedersi quale sia l’impatto energetico che quotidianamente possiamo portare semplicemente gettando i rifiuti nel bidone giusto (permettendo, così, che ogni tipo di materiale vada a finire nell’impianto di recupero corretto!). Stimiamo in 65 Kg la produzione media di rifiuti plastici di una famiglia italiana in un anno e ipotizziamo che l’80% di questi siano in PET o materiale plastico a potere calorifico comparabile. Questo significa avere a disposizione un potenziale energetico di recupero di circa 550000 Kcal. Per avere un’idea di quanta energia sia, si consideri che questa equivale all’energia assorbita in un’ora da 212 appartamenti, cioè 640 Chilowatt; la stessa energia può essere impiegata per alimentare una singola abitazione per 9 giorni continuativi giorno e notte. Per chi provasse poca familiarità con questi valori, possiamo facilmente ricondurli ad un caso più goloso e interessante, ovvero a 9 mesi di fabbisogno energetico equivalente di un uomo adulto, che corrispondono a 510 hamburger, 1015 piatti di pasta al ragù, 8400 banane o 14450 mele Golden!

Badate bene: non vi sto suggerendo di iniziare a buttare hamburger nel serbatoio della vostra auto e nemmeno di iniziare a mangiare bottigliette di plastica; sebbene i valori del potere calorifico finora considerati risultino realistici, ciò che è estremamente limitante sono proprio gli aspetti tecnici – finora trascurati – relativi ai rendimenti di scambio termico, che rimangono piuttosto bassi, anche negli impianti più moderni. Tali parametri difficilmente raggiungono valori superiori al 45% (ciò significa che per 100 unità di energia disponibili dalla combustione dei materiali sotto forma di calore, solo 45 unità possono essere utilizzate per produrre elettricità), fattore che spinge spesso chi organizza la raccolta differenziata a scegliere di destinare i rifiuti ad altro scopo, ad esempio alla produzione di materiali riciclati come carta o plastica riciclata impiegando espedienti e processi tecnologici completamente differenti da quelli tracciati in precedenza.

Ferma restando la valenza tecnologica ed energetica dei rifiuti urbani, dei quali quotidianamente ci disfiamo e che consapevolmente dobbiamo scegliere di destinare al recupero – energetico e non – ma non allo spreco, tentiamo di astrarre il concetto di rifiuto per analizzare procedimenti di recupero più nobili e di interesse industriale. Partiamo dall’analisi di una situazione ricorrente: chiunque può immaginare che il motore di un’automobile, date le alte temperature cui si trova ad operare, necessiti di un circuito di raffreddamento alimentato da fluidi di servizio frigoriferi (acqua e olio); questi fluidi di servizio al motore, una volta assorbito calore dal blocco motore che ha  così innalzato il proprio valore entalpico (l’entalpia, misurata per i nostri scopi in Kjoule/Kg, è una modalità per esprimere il valore di energia di un corpo rapportata alla massa del corpo stesso), diventano di fatto inutili, non potendo raffreddare ulteriormente. Si pone allora il problema di spendere energia per assorbire il calore da questi fluidi caldi e immetterli nuovamente nel ciclo di raffreddamento come fluidi freddi. Risulta particolarmente facile intuire come quest’ultima trasformazione richieda energia, energia che sarebbe auspicabile riuscire ad evitare di spendere. Nell’evidenza pratica, esiste una modalità particolarmente interessante per evitare la spesa energetica di raffreddamento: il fluido caldo viene infatti convogliato nel circuito di condizionamento dell’aria interna all’abitacolo e utilizzato per il riscaldamento dell’aria calda durante i mesi freddi; trasferito il calore acquisito all’aria, il fluido è nuovamente freddo e pronto per raffreddare il motore. Questo ciclo semplice ed intuitivo ci mostra come sia possibile non solo evitare di spendere energia per il raffreddamento del fluido motore, ma anche evitare sprechi per la somministrazione di aria condizionata, indispensabile per il comfort di guida.

Il caso precedente vede una sua applicazione piuttosto diffusa di uso industriale in quelli che vengono comunemente denominati impianti di cogenerazione energetica. L’idea di un impianto cogenerativo consiste proprio nello sfruttamento congiunto di un fluido da un impianto “principale” per la produzione di un certo tipo di energia e da un impianto “di recupero” per la produzione di energia differente. L’equivalente industriale del caso di un’automobile prende il nome di motore a combustione interna: il motore è tarato su un livello di produzione di energia elettrica in grado di soddisfare il fabbisogno dell’impianto produttivo; i fluidi di servizio (acqua e oli di raffreddamento) e i rifiuti di combustione (i fumi ad alta temperatura) vengono convogliati in un circuito di recupero che genera energia termica, che può essere impiegata a fini tecnologici (dal semplice riscaldamento degli ambienti, all’alimentazione di macchinari industriali che necessitano di fluidi ad una certa temperatura per il corretto funzionamento).

Chiarita quest’ultima caratterizzazione energetica, è interessante – al pari del caso dei rifiuti urbani – valutare l’impatto energetico di recupero, questa volta tenendo conto anche delle perdite energetiche relative ai rendimenti di scambio termico. Un impianto a combustione interna per la sola produzione di elettricità porta a rendimenti di produzione che non superano il 35%, comportando pertanto perdite nell’ordine del 65%. Prevedendo un circuito di recupero, è possibile recuperare fino al 53% di rendimento sotto forma termica, con un rendimento elettrico del 32% e perdite nell’ordine del 15%.

Questi casi ci mostrano come sia sempre importante pensare all’energia come ad una risorsa scarsa e come spesso sia possibile prevedere metodologie di riutilizzo e di recupero energetico per garantirci la sostenibilità nello sfruttamento e nella produzione energetica.

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